L'unico agente sopravvissuto alla strage mafiosa che il 19 luglio 1992 uccise il giudice e cinque uomini della scorta, Antonio Vullo, è stato chiamato a deporre come primo testimone nel processo iniziato lo scorso marzo. 'Sono sopravvissuto, ma non l'ho mai considerata una fortuna: i ricordi sono tutti lì'
Antonio Vullo con Rita BorsellinoIl giudice tira fuori dal pacchetto una sigaretta, l'ennesima della
giornata. Il sole batte sull'asfalto e rende molle il cemento. Fa
in tempo ad aspirare una sola boccata, sulle labbra ha impresso un
sorriso, alza l'indice destro per suonare il citofono, e in un
attimo Palermo si trasforma in Beirut. Un boato, una spinta d'aria
che travolge, fumo, fiamme, sangue e pezzi di corpi: il sole si
oscura per sessanta secondi.
I fotogrammi dell'orrore della strage di via D'Amelio sono noti a tutti, ma sono stampati nella mente di una sola persona: Antonio Vullo, agente della scorta di Paolo Borsellino, unico sopravvissuto alla mattanza e soprattutto unico testimone oculare dei misteri di quel pomeriggio del 19 luglio del 1992.
E' lui, infatti, ancora oggi, a 21 anni esatti da quella esecuzione mafiosa che oltre al giudice antimafia è costata la vita a cinque agenti della scorta, l'unico depositario di alcuni dettagli rimasti sconosciuti. Ed è a lui, dunque, che i magistrati siciliani si sono rivolti per conoscere la verità.
Antonio Vullo oggi ha 53 anni. Non ha mai lasciato Palermo. E neanche la divisa della polizia di Stato, nonostante ormai in pensione, dopo un lungo congedo per via del profondo shock subito che lo ha costretto a sottoporsi per anni a cure fisiche e psicologiche. Non ha mai considerato l'essere sopravvissuto a quella strage "una fortuna". Perché i ricordi di quel pomeriggio sono ancora tutti lì, uno in fila all'altro, come un esercito di spettri pronti a tendere un agguato. "Ancora oggi quando mi alzo di notte non riesco a camminare a piedi nudi", racconta, "perché mi tornano in mente gli attimi subito dopo l'esplosione, mentre avvolto dal fumo mi facevo largo fra i detriti, non vedevo nulla, ho calpestato qualcosa di morbido. E mi sono reso conto che era il piede amputato di un collega".
Un resoconto agghiacciante che trova conferma nei verbali dell'epoca: "Nel luogo della deflagrazione rinveniamo decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati", si legge nella relazione di sopralluogo della Squadra Mobile palermitana datata 20 luglio 1992.
E così oggi le pieghe dei ricordi di quell'inferno di sangue e cemento, nella mente dell'unico testimone, per gli inquirenti assumono un'importanza cruciale. Soprattutto per chiarire tre dei punti fondamentali della strage, rimasti un mistero o addirittura depistati per più di un ventennio: l'agenda rossa di Borsellino, l'automobile rubata usata come bomba e il palazzo da dove i mafiosi osservarono la situazione e fecero esplodere il tritolo.
Dopo un lunghissimo silenzio, lo scorso aprile davanti ai giudici della Corte d'Assise di Caltanissetta Vullo è stato chiamato a deporre come primo testimone nel "Borsellino quater", il processo iniziato lo scorso marzo che oggi vede alla sbarra cinque imputati (due boss e tre falsi pentiti) accusati di essere gli autori del depistaggio che portò alla condanna all'ergastolo di sette innocenti accusati della strage di via D'Amelio, e che si basa sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Gaspare Spatuzza, Giovanni Brusca, Giuseppe Tranchina e Antonino Giuffrè. La deposizione di Vullo è stata lunga è precisa.
Ad assisterlo oggi c'è il suo avvocato Mimma Tamburello, storica amica di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, che dopo le stragi si è assunta la difesa di tutti i familiari delle vittime. "Si tratta di una persona ancora drammaticamente traumatizzata", spiega il legale a l'Espresso, "che però è riuscita a ricostruire nei dettegli quel pomeriggio fornendo i tasselli mancanti che gli inquirenti andavano cercando da anni".
I tasselli, dunque. Primo fra tutti, l'agenda rossa del giudice Borsellino, che secondo i suoi familiari custodiva i suoi ultimi e preziosissimi appunti, e che non fu mai più ritrovata. Né in casa né sul luogo della strage.
"Quel pomeriggio il signor giudice doveva accompagnare l'anziana madre dal medico e stava rientrando dalla sua abitazione al mare, Villa Grazia di Carini, dove andava quasi tutti i fine settimana per rilassarsi con la sua famiglia", raccontato Vullo, "aveva sicuramente con sé una valigetta, e poi mi pare anche un'agenda di colore scuro, che teneva sottobraccio". Ancora oggi, 21 anni dopo, gli inquirenti si sono battuti per capire se questa agenda - che conteneva le ultime confidenze fatte al giudice da un pentito - sia andata distrutta nella deflagrazione o se sia stata portata via dal luogo della strage nei concitati attimi dei primi soccorsi.
I fotogrammi dell'orrore della strage di via D'Amelio sono noti a tutti, ma sono stampati nella mente di una sola persona: Antonio Vullo, agente della scorta di Paolo Borsellino, unico sopravvissuto alla mattanza e soprattutto unico testimone oculare dei misteri di quel pomeriggio del 19 luglio del 1992.
E' lui, infatti, ancora oggi, a 21 anni esatti da quella esecuzione mafiosa che oltre al giudice antimafia è costata la vita a cinque agenti della scorta, l'unico depositario di alcuni dettagli rimasti sconosciuti. Ed è a lui, dunque, che i magistrati siciliani si sono rivolti per conoscere la verità.
Antonio Vullo oggi ha 53 anni. Non ha mai lasciato Palermo. E neanche la divisa della polizia di Stato, nonostante ormai in pensione, dopo un lungo congedo per via del profondo shock subito che lo ha costretto a sottoporsi per anni a cure fisiche e psicologiche. Non ha mai considerato l'essere sopravvissuto a quella strage "una fortuna". Perché i ricordi di quel pomeriggio sono ancora tutti lì, uno in fila all'altro, come un esercito di spettri pronti a tendere un agguato. "Ancora oggi quando mi alzo di notte non riesco a camminare a piedi nudi", racconta, "perché mi tornano in mente gli attimi subito dopo l'esplosione, mentre avvolto dal fumo mi facevo largo fra i detriti, non vedevo nulla, ho calpestato qualcosa di morbido. E mi sono reso conto che era il piede amputato di un collega".
Un resoconto agghiacciante che trova conferma nei verbali dell'epoca: "Nel luogo della deflagrazione rinveniamo decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati", si legge nella relazione di sopralluogo della Squadra Mobile palermitana datata 20 luglio 1992.
E così oggi le pieghe dei ricordi di quell'inferno di sangue e cemento, nella mente dell'unico testimone, per gli inquirenti assumono un'importanza cruciale. Soprattutto per chiarire tre dei punti fondamentali della strage, rimasti un mistero o addirittura depistati per più di un ventennio: l'agenda rossa di Borsellino, l'automobile rubata usata come bomba e il palazzo da dove i mafiosi osservarono la situazione e fecero esplodere il tritolo.
Dopo un lunghissimo silenzio, lo scorso aprile davanti ai giudici della Corte d'Assise di Caltanissetta Vullo è stato chiamato a deporre come primo testimone nel "Borsellino quater", il processo iniziato lo scorso marzo che oggi vede alla sbarra cinque imputati (due boss e tre falsi pentiti) accusati di essere gli autori del depistaggio che portò alla condanna all'ergastolo di sette innocenti accusati della strage di via D'Amelio, e che si basa sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Gaspare Spatuzza, Giovanni Brusca, Giuseppe Tranchina e Antonino Giuffrè. La deposizione di Vullo è stata lunga è precisa.
Ad assisterlo oggi c'è il suo avvocato Mimma Tamburello, storica amica di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, che dopo le stragi si è assunta la difesa di tutti i familiari delle vittime. "Si tratta di una persona ancora drammaticamente traumatizzata", spiega il legale a l'Espresso, "che però è riuscita a ricostruire nei dettegli quel pomeriggio fornendo i tasselli mancanti che gli inquirenti andavano cercando da anni".
I tasselli, dunque. Primo fra tutti, l'agenda rossa del giudice Borsellino, che secondo i suoi familiari custodiva i suoi ultimi e preziosissimi appunti, e che non fu mai più ritrovata. Né in casa né sul luogo della strage.
"Quel pomeriggio il signor giudice doveva accompagnare l'anziana madre dal medico e stava rientrando dalla sua abitazione al mare, Villa Grazia di Carini, dove andava quasi tutti i fine settimana per rilassarsi con la sua famiglia", raccontato Vullo, "aveva sicuramente con sé una valigetta, e poi mi pare anche un'agenda di colore scuro, che teneva sottobraccio". Ancora oggi, 21 anni dopo, gli inquirenti si sono battuti per capire se questa agenda - che conteneva le ultime confidenze fatte al giudice da un pentito - sia andata distrutta nella deflagrazione o se sia stata portata via dal luogo della strage nei concitati attimi dei primi soccorsi.
Vullo si è salvato dalla mattanza per un caso fortuito. "Quando
siamo arrivati sotto via D'Amelio mi ha colpito la quantità di
macchine che era posteggiata lì sotto, nonostante facesse tanto
caldo e quasi tutti i palermitani nel fine settimana vanno al mare.
Ma nessuno di noi ha detto nulla". "I miei colleghi si sono messi a
ventaglio dietro al giudice, come facevano ogni volta, come prevede
la procedura. Io invece sono tornato indietro a posteggiare meglio
la macchina, e ho fatto retromarcia. Mentre ero girato con il viso
per fare manovra, ho sentito un'ondata di calore infernale. Solo
dopo il boato. Sono sceso dall'auto che era già in fiamme. Intorno
a me era tutto buio".
Il poliziotto sopravvissuto ancora oggi pone l'accento su una stranezza, che è stata più volte fatta notare in questo ventennio di indagini, fra piste bruciate e abbagli investigativi. E che è emersa anche nel corso del processo di Caltanissetta. "Tutti a Palermo sapevano che dopo il giudice Falcone la prossima vittima sarebbe stata Borsellino", racconta, "fra noi poliziotti circolava una voce: sei di scorta a Borsellino? Che Dio ti protegga. E così un mese prima hanno rafforzato la scorta ovunque. Tranne che in via D'Amelio". Alla madre, infatti, il giudice faceva visita spessissimo, e con lei si metteva d'accordo per telefono. Aggiungere uomini al servizio di tutela in via D'Amelio non avrebbe impedito la strage, certo, ma qualcuno di loro facendo un controllo sulle targhe si sarebbe probabilmente accorto di quella Fiat 126 rubata (imbottita con 100 chili di tritolo) parcheggiata proprio davanti al palazzo.
Il terzo punto misterioso riguarda l'edificio in costruzione davanti al luogo della strage. Ed è legato a una telefonata anonima, che arriva alla Questura di Palermo il giorno dopo l'attentato mafioso. A telefonare è una donna, che spiega al poliziotto di turno alle volanti che in via D'Amelio c'è un palazzo in costruzione che appartiene alla famiglia Graziano, considerata vicina al clan dei Madonia. Da quel punto della strada, si ha una visuale perfetta del punto in cui fu fatta esplodere la bomba.
Così il giorno dopo gli agenti vanno a fare un sopralluogo. Per le scale, in effetti, incontrano uno dei fratelli Graziano. Ma a colpire i poliziotti è un altro particolare: sul tetto del palazzo, fatto a terrazza, è collocato un vetro scudato, molto robusto. E a terra ci sono decine di cicche di sigarette, come se qualcuno si fosse messo lì in attesa per molte ore. Diligentemente, gli agenti scrivono una relazione destinata alla Criminalpol di Palermo. Ma di quella relazione - come ha evidenziato di recente in aula in pubblico ministero Domenico Gozzo - non c'è nessuna traccia.
Saranno necessari vent'anni, quattro processi, decine di pentiti e undici innocenti in carcere di cui sette condannati all'ergastolo per capire il coinvolgimento di uno dei clan più potenti e radicati di Cosa Nostra, quello dei Madonia. Che oggi vede il boss "Salvuzzo" fra i principali imputati perché sospettato, insieme ad altri capimafia, di essere promotore e mandante di una strategia offensiva che aveva un solo obiettivo e che in via D'Amelio trova il suo acme più devastante: arrivare alla politica.
Il poliziotto sopravvissuto ancora oggi pone l'accento su una stranezza, che è stata più volte fatta notare in questo ventennio di indagini, fra piste bruciate e abbagli investigativi. E che è emersa anche nel corso del processo di Caltanissetta. "Tutti a Palermo sapevano che dopo il giudice Falcone la prossima vittima sarebbe stata Borsellino", racconta, "fra noi poliziotti circolava una voce: sei di scorta a Borsellino? Che Dio ti protegga. E così un mese prima hanno rafforzato la scorta ovunque. Tranne che in via D'Amelio". Alla madre, infatti, il giudice faceva visita spessissimo, e con lei si metteva d'accordo per telefono. Aggiungere uomini al servizio di tutela in via D'Amelio non avrebbe impedito la strage, certo, ma qualcuno di loro facendo un controllo sulle targhe si sarebbe probabilmente accorto di quella Fiat 126 rubata (imbottita con 100 chili di tritolo) parcheggiata proprio davanti al palazzo.
Il terzo punto misterioso riguarda l'edificio in costruzione davanti al luogo della strage. Ed è legato a una telefonata anonima, che arriva alla Questura di Palermo il giorno dopo l'attentato mafioso. A telefonare è una donna, che spiega al poliziotto di turno alle volanti che in via D'Amelio c'è un palazzo in costruzione che appartiene alla famiglia Graziano, considerata vicina al clan dei Madonia. Da quel punto della strada, si ha una visuale perfetta del punto in cui fu fatta esplodere la bomba.
Così il giorno dopo gli agenti vanno a fare un sopralluogo. Per le scale, in effetti, incontrano uno dei fratelli Graziano. Ma a colpire i poliziotti è un altro particolare: sul tetto del palazzo, fatto a terrazza, è collocato un vetro scudato, molto robusto. E a terra ci sono decine di cicche di sigarette, come se qualcuno si fosse messo lì in attesa per molte ore. Diligentemente, gli agenti scrivono una relazione destinata alla Criminalpol di Palermo. Ma di quella relazione - come ha evidenziato di recente in aula in pubblico ministero Domenico Gozzo - non c'è nessuna traccia.
Saranno necessari vent'anni, quattro processi, decine di pentiti e undici innocenti in carcere di cui sette condannati all'ergastolo per capire il coinvolgimento di uno dei clan più potenti e radicati di Cosa Nostra, quello dei Madonia. Che oggi vede il boss "Salvuzzo" fra i principali imputati perché sospettato, insieme ad altri capimafia, di essere promotore e mandante di una strategia offensiva che aveva un solo obiettivo e che in via D'Amelio trova il suo acme più devastante: arrivare alla politica.
Fonte;L'Espresso.it
Nessun commento:
Posta un commento